Insomma, io e Wilfredo eravamo lì a parlare e straparlare di cose poco divertenti già da un po'. Ma riuscivamo comunque a mantenere buono l'umore grazie anche a po' di superalcolici vintage ma non per questo fuori moda (fuori luogo? fuori forma? chi se ne frega). Con noi c'era anche il levriero del piano di sotto che però ci lasciò al secondo bicchiere.
- Scusate ragazzi ma domani porto i bimbi a scuola.
Ovviamente intendeva i figli del suo padrone, un macaco. Se ne andò in fretta ma secondo me aveva capito l'antifona e non aveva voglia di evocare questioni famigliari brusche e faticose. Cosa che invece io Wilfredo ormai stavamo affrontando a viso aperto, come ai vecchi tempi (davvero?). Gli chiesi di andarsene, ma non prima di finire di parlare. Questione di padri, certo. Questione di figli, certo. Adulti, ragazzi, crescere, screscere, inventare parole come fossero fuffole imperaggiste. Non era semplice parlare di morti e fu nerali, non lo è per nessuno. Fuori era buio ma anche dentro non scherzava un cazzo. Non andava un granché bene a nessuno dei tre. Sì, all'improvviso era tornato il levriero del piano di sotto (a volte non chiudo a chiave) ma solo per recuperare il guinzaglio. Ci salutò con una leggera malinconia.
Non lo invidiammo per niente, ma eravamo solo soli sole due fogli bianchi in attesa di essere stampati, soltanto che lo scrittore delle nostre speranze era annoiato e impigrito (niente male!). Riflettemmo su quest'ultima cosa e ci accorgemmo che avevamo lasciato in sospeso il discorso dell'invidia. Provammo a tirarlo giù ma non ci fu niente da fare. Rimaneva solo un grande rispetto per il passato remoto. Chiesi a Wilfredo di rimanere, ma solo prima di andarsene. Guardammo l'orologiammo, decidemmo che mancavammo pocammo, urgeva prendere una decisione. Cosa fare dei nostri sentimenti, così ispidi e fragili come aghi di paglia? Forse cercarli? Ma sarebbe stato come andare al Lago del Pagli Aglio. Provai con l'aiuto da casa ma in casa c'eravamo soltanto noi e la cosa non fu di alcun aiuto. Toccò a Wilfredo (che coraggio!) inerpicarsi su una parete emotiva ripida e scivolosa, dove in cima non c'era altro che un vuoto esistenziale. Lo ascoltai con tutte le mie forze ma non sentivo niente. Allora lo feci con le orecchie e andò molto meglio. Mi spronava a spronare e mi sperava a sperare, un po' come si fa con se stessi quando non hai gente intorno che ti da' pacche sulle spalle. O paccheri, se hai amici cuochi.
- Me lo dice spesso il parrucchiere: aiutati che il gel d'aiuta.
Non aveva torto, mi sembrò un'affermazione piuttosto brillantina. Wilfredo non se ne andava, eppure io non l'avevo invitato. Glielo feci presente, come un dono forzato. Lui non batté ciglio e tirò su le sue cose, compresa una parete di troppo che voleva fissare al muro per ore e ore. Wilfredo era un grande amico ma fare regali non era il suo forte.
- Scriverò a quella donna che non la voglio più vedere e che non voglio mai più sentir parlare di quell'uomo.
Wilfredo sembrava sulla stessa lunghezzzzzza d'onda, seppur con qualche zeta di troppo perché a volte strafaceva. Ci salutammo e mi trovai solo con il telefono in mano, come un utente qualsiasi. Non era facile. Per niente. Cominciai a scrivere e mi corressi almeno venti volte, fino a quando quella donna mi chiamò. Ero stretto tra due voglie, una di purè e l'altra pure. Mi sentivo è ma ncipato inutilmente. Ero il paladino del nulla. Ma perché poi. Decisi di smetterla di temperarmi il cervello e allora parlai io.
- Domenica vengo a pranzo.
Chiusi la chiamata a tripla mandata. Mi arrivò un messaggio subito, neanche il tempo di dimenticare tutto per sempre. Era Wilfredo, mi scriveva: "Vigliacco". La cosa non mi andava giù. Feci uno sforzo. Niente da fare. Tutto rimaneva lì, all'altezza dei desideri insensati e dei sogni infranti. Lo chiamai. Sentii squillare il suo cellulare. Girovagai per caso per casa un paio di eterni (?) minuti prima di trovarlo in balcone, tranquillo e abbastanza infreddolito.
- Ma non eri andato via?
- La macchina conosce la strada.
Mi affacciai e vidi la sua auto prendere la via di casa sua, sola e tranquilla. Aveva nettamente una marcia in più di noi e non era solo una questione meccanica. Al suo seguito c'era una silenziosa e meravigliosa fanfara. Ma questa è un'altra storia. Wilfredo tornò in casa ed effettivamente sembrava non se ne fosse mai andato. Sentimmo abbaiare. Dalla finestra nello specchio (l'unico regalo non così inutile di Wilfredo) scorgemmo il levriero a spasso con il macaco. Gli amici si vedono nel momento del bisognino, pensai a voce alta prima di tacciarmi mentalmente di banalità. Lo fissammo per un po', il levriero era al guinzaglio ma manteneva una strana e rigorosa dignità. Ci sembrò una lezione di vita e a quel punto suonò la campanella (moglie didattica del campanello). Uscimmo di casa e in silenzio ci demmo appuntamento per i compiti. Consci, finalmente, che erano molti ma mai abbastanza.
Sembra un cazzeggio sublime di Carver invalvolato di sublimi e psicotropicali calembours. Bellissimo.
RispondiEliminaMaestro Luise: continuerò a mangiarti perché sei troppo buono <3
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