- Nessuno. Proprio nessuno.
- Allora perché dovrei farlo?
- Perchè sei tu.
- Cosa trovo all'uscita?
- Forse niente. Forse non vorrai uscire mai più.
È giorno, di questo sono sicuro. Il sole picchia quasi verticalmente, la mia ombra è quasi in osmosi col mio corpo che la proietta per terra. Per cui dovrebbe essere l'ora di pranzo. Non ho fame. Appena sveglio difficilmente ho fame. Sono anni che salto la colazione per passare direttamente allo spuntino di metà mattinata, un caffè macchiato freddo e una brioche con crema di cioccolato, preferibilmente di pasticceria. Odio le brioches la cui farcitura è grande quanto una biglia e sfortunatamente la maggior parte dei bar le offre di questo tipo.
Punto della situazione.
Sono qua dentro da "x" giorni. Credo una settimana.
Nello zaino ho provviste per i prossimi quattro giorni.
Medicine in abbondanza. Spero.
Quattro bombolette ancora piene. Due rosse, una gialla e una arancione. Tutte con tappi ancora utilizzabili.
Mi butto un po' di acqua in faccia e me la asciugo con la manica della maglietta. Il mal di schiena testimonia la mia parziale disorganizzazione. Dovevo portarmi almeno un materassino.
Nessuna traccia di vernice in questo corridoio.
Per cui di qua non ci sono mai passato.
Buon segno.
Oppure no.
Non essere mai passato di qua può voler dire che mi ci posso perdere ancora. E ancora. E ancora. E ancora.
Mi conviene camminare.
Di questo corridoio non si vede nemmeno la fine. Il terreno non presenta nemmeno un filo d'erba e le pareti sono alte almeno un paio di metri. Non si vede nulla se non il cielo.
La mappa che stavo disegnando l'ho buttata ieri. O l'altro ieri. Totalmente inutile.
L'unico modo che mi è rimasto per uscire è affidarmi all'intuito. Alla sorte. Magari una botta di culo. Senza pensarci. Cammino e bam. L'uscita.
Invece no.
Per ora non ho fatto che camminare. Dormire. Bestemmiare. Segnare con le bombolette le strade finora percorse. Non mi sono ancora ubriacato. La bottiglia di bruciabudella è ancora impachettata.
Eccoci qua.
Il corridoio è finito. Un bivio a "t".
O destra.
O sinistra.
Fantastico.
Non ho monete. Riempio l'incrocio. Chiudo gli occhi. Comincio a girare su me stesso. Prima in un senso e poi nell'altro, aumentando sempre più la velocità. Con gli occhi chiusi colgo il rumore dei miei piedi che striciano circolarmente per terra. Nient'altro. Giusto un ronzio ogni tanto.
Apro gli occhi.
Mi vien da vomitare.
Mi siedo per smaltire il girotondo.
Ancora qualche minuto.
Il giochino mi porta ad andare a sinistra. Per cui vado a sinistra. Un corridoio infinito. Fa caldo. Tolgo la maglietta e la butto nello zaino, prima però la uso per asciugare il sudore che permea il mio viso come se fosse domopak.
Cammino.
Un segno con la bomboletta arancione.
Cammino.
Un altro segno.
Proseguo così per un centinaio di metri.
Botta di culo?
Alla mia sinistra un'apertura tra le pareti, una sorta di porta le cui cornici sono i rami dei cespugli che compongono questo labirinto. Butto un occhio.
Una piazza. Una fontana. Di marmo. L'acqua esce dalle bocche di quattro pesci che fuoriescono dallo spruzzo scolpito nel marmo da un artigiano molto abile. Magari lui. C'è serenità in tutto questo.
La piazza si apre in un ambiente di almeno seicento metri quadrati. Un enorme prato accoglie i raggi del sole e cattura le gocce che la fontana sparge nell'aria. Impossibile non entrarci. Sento che devo.
Mi siedo con la fontana alle spalle. Un leggero languorino. Mangio la mela, una di quelle che ho colto dall'albero che ho incrociato il terzo giorno. Il secondo? Il quarto?
Silenzio.
Nessun ronzio.
Lo scroscio e lo zampillio della fontana.
Rompo questo scarso e dolce silenzio col rumore delle mie fauci che azzannano il frutto che non ho sbucciato.
Otto.
Otto porte. Due alla mia destra, separate da almeno venti metri di cespugli. Una di fronte a me, proprio centrale. Una alla mia sinistra, quella da cui sono entrato. Quattro alle mie spalle, tutte equidistanti tra loro.
Cazzo.
Mi toccherà un girotondo da svenimento.
Otto porte. Due. Una. Una. Quest'ultima la escluda. Quattro.
Otto. Due. Una. Quattro.
Una. Quella di fronte a me.
Solo ora ci faccio caso. Un segno fatto con una bomboletta. Viola.
Un segno?
Viola?
Che significa?
Ammetto di provare un forte brivido. C'è qualcun altro? Il cuore rimbalza ovunque, il sangue corre al galoppo e le mani tremano. Cazzo. C'è qualcun altro. Quel bastardo mica me l'aveva detto. O forse sì? Ripenso alla proposta che mi ha fatto. Ripenso a noi due in quel parco. Io su una panchina con gli occhi ancora gonfi e rossi, bianco e sciupato come una foglia d'autunno. Lui che arriva, prende posto a fianco a me e mi parla della bellezza della natura. Mi parla del labirinto. Mi parla di questo labirinto. Non si presenta nemmeno. Nemmeno io mi presento.E accetto.
Arrivo a casa, faccio la zaino e sparisco senza dire niente a nessuno. A chi poi?
Mi viene a prendere sotto casa mia.
Mi fa entrare nella sua macchina.
Mi addormento.
Mi sveglio qua dentro.
Mi accorgo che mi ha sedato. Due buchi sul braccio. Il bastardo ha sbagliato la prima iniezione.
Un segno viola.
Non mi resta altra scelta.
Corro alla porta di fronte a me.
Mi fermo.
Prendo la bomboletta rossa.
Schiaccio il tappo.
La vernice macchia le foglie della parete.
Riparto.
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