domenica 26 settembre 2010

Religion

Da quanto stiamo camminando? Non ricordo nemmeno il momento in cui ho aperto gli occhi e qualcosa mi stritola il cuore, un filo d'acciaio, un cavo elettrico.
Ogni tanto il buio si infila tra i nostri passi, quasi inciampiamo, e i lampioni si accendono quando ne hanno voglia.
Ci guardiamo poco e non parliamo, ciò che conta è camminare insieme, è farmi accompagnare in questa passeggiata che lentamente capisco dove mi porterà.
Siamo qui.
La metropolitana che si butta sottoterra, il piccolo parco con le panchine scarabocchiate, l'istituto, il semaforo col pulsante.
Nessuno.
Noi e l'aria che sa di salsedine che ti appiccica gli occhi.
E io non posso dirti che è stata dura, ma certamente non è stato facile, non è facile, non sarà mai facile. Sai, ognuno di noi è un piccolo cosmo, colmo di pianeti e stelle e nebulose e polvere che gravitano e ruotano dentro e intorno a noi. Siamo l'unico universo dove la fisica non esiste, ogni cosa si muove su regole proprie. Possiamo solo non tormentarci e accarezzare la nostra anima lattea, con le sue comete e le sue stelle cadenti. E tutto va avanti.
Fino a quando diventiamo più leggeri. Ci sentiamo sporchi, macchiati, infangati. Dentro si apre una piccola pozzanghera.
L'asfalto ti ha rubato un pianeta. La strada, coi suoi guardrail, il suo grigiore, ti ha portato via un amico.
E non hai più il difensore che ti può far male con un contrasto, non hai più il passaggio sicuro, non hai più la festa al parco, non hai più il suo sorriso, il suo pizzetto, non hai più la chiacchierata su donne e lavoro. Non hai più il suo abbraccio.
E pensi alle volte che lo hai preso in giro, alle volte che hai dubitato di lui, a quando lo avresti preso a sberle. Ma ti fermi. Sai che litigare fa parte del gioco, che non ha senso sentirsi in colpa.
Guardavo i telegiornali, leggevo i quotidiani, e solo tu sai quanto sentissi lontano da me gli incidenti in macchina, quei servizi e quegli articoli pieni di lamiere e sangue.
Nella mia scatola di vetro potevo essere ucciso da un sicario e i miei amici avrebbero incontrato la morte solo per cause naturali. Una telefonata e una corsa in ospedale ti danno lo schiaffo che serve a rompere il vetro.
Quando si muore così presto, non credo si finisca un percorso. Lo si interrompe. Non c'è altra opzione.
Come fanno a dire che così doveva essere, che tu l'hai chiamato? Cosa te ne fai di un ventenne là sopra? E perché per portarlo via hai segnato la "x" su quella curva? Come fa a esistere un disegno se questo obbliga a lacrime e ricordi che perseguitano per giorni?
Continuiamo a camminare. Tu non porti nessun gilet e non stai fumando nessuna sigaretta. Ma so che sei tu. Basta accorgersi degli alberi e delle recinzioni e non distrarsi durante il viaggio. E le fitte al cuore si fanno sempre più tremende, una cinghia ostacola il respiro.
Tu non parli e non rispondi.
La "x".
Mi hai portato qui. Quando me ne accorgo, sul mondo sono rimasto soltanto io, con il mio dolore che riaffiora e le parolacce che volano. Mi hai portato qui.
Ti prego, lasciami solo. Vattene. Mi bastano l'asfalto, il guardrail e qualche pezzo d'acciaio incastrato qua in giro. Non mi serve altro.
Non mi serve altro per non capire, sono bravissimo da me. Non mi servono risposte, non mi soddisferanno mai.
So da quanto stiamo camminando. Da più di vent'anni. So che continueremo a camminare, oltre questa "x".
Ti scongiuro. Fa che sia l'ultima.
Ho bisogno solo di capirti, ma strappandomi amici in questi modi mi porti solo a fermarmi, a non guardare più il cielo.
Vai a farti un giretto ora. Io ti raggiungo. Scambio due chiacchiere con lui e arrivo.

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