lunedì 11 novembre 2013

"Storia di una storia della settimana scorsa che non era ancora finita". Capitolo VII. La città incompiuta.

Disclaimer: questo romanzo è scritto di getto e lo scrivo quando ne ho voglia. La storia, proprio per la sua natura casuale, attraversa generi e linguaggi diversi, senza alcuna pretesa di sensatezza. Non vi rimane che leggere e, quando/quanto possibile, divertirvi. Voster Guido Ingenito.
"Storia di una storia della settimana scorsa 
che non era ancora finita". 
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Capitolo VII. La città incompiuta.

C'era una città da qualche parte dove non ero mai stato. Non era né troppo vicina, né troppo lontana, e da quel che si diceva era un posto per tutti oppure no. Esisteva una sola strada che la raggiungeva, né troppo, né troppo poco trafficata. Quella città era ovunque e da nessuna parte. Era popolosa e disabitata. A misura d'uomo e invivibile. E quando la si abbandonava rilasciava rimpianti e riempiva d'orgoglio.
Questo era quello che mi aveva raccontato Ash, prima di partire per qualche giorno per un pellegrinaggio in se stesso lassù da qualche parte al mare (Ash non era un tipo da gite convenzionali). Credevo mi prendesse per il culo e lo lasciai fare: sorrisi quando mi giurò che era tutto vero, risi quando mi fece l'imitazione di un lemure ubriaco e in quell'attimo di debolezza mi strappò la promessa di provare a raggiungerla. Poi allentò la presa sul collo, mi chiese scusa e offrì da bere all'intero locale.
Poi mi accorsi che stavo una raccontando una storia che non volevo raccontare. Anzi: di cui non ne avevo idea. Avevo solo l'incipit ma non avevo altro. Nessuno sviluppo. Nessun mutamento. Nessun climax. Nessun finale. Non potevo cominciare meglio. Ogni partenza è di per sé un traguardo, così come ogni traguardo è una partenza e ogni scarrafone è bello a mamma soja. L'avevo imparato durante un viaggio incredibile e fatiscente nella soffitta di uno strampalato zio che mi ero dimenticato di avere (o di essere, non ricordo). Non era figlio di un nonno, ma di un nonnulla. Un nonno scordato. O forse poco intonato. In una soffitta con poco intonaco. L'abito non fa il monaco. Dipende se abita in soffitta. E se questo posto s'affitta.
Sta di fatto che tasti sotto le dita mi stavo perdendo in giochi di parole senza alcuna via di fuga (per me stesso e per i lettori). Ash era partito. Dovevo inventarmi qualcosa. Forse potevo riprendere la città in cui non ero mai stato, ma mi perdevo in descrizioni piuttosto ambiziose e poco catartiche. Questa città così inesistente ma posta in essere doveva avere un qualsivoglia mistero nascosto in cantina (non in soffitta), insomma, un motivo per risultare prelibata e pericolosa allo stesso tempo (quello che Ash non ama sprecare, vedi Capitolo V. Nostalghia). Solo che ero partito con un racconto, mi ero addentrato con parsimonia nel noir per poi uscirci da un'uscita di emergenza che non avevo progettato, nemmeno voluto. Insomma: ero a un punto (e a capo) morto.
Allora mi ricordai che avevo qualcosa da raccontare: eccome. Si trattava di quella volta che Ash, valigia alla mano, mi disse che partiva per qualche giorno alla ricerca di se stesso, lassù da qualche parte al mare. Lo ricordo come fosse domani (tanto per capirci, e per coerenza, la settimana scorsa non era ancora finita). Prima di chiudere il bagaglio mi chiese dove avessi nascosto la sua pistola. Gli risposi che non ne avevo idea, il che era normale vista la direzione che stava prendendo questo capitolo. Fu allora che Ash esplose in tutto il suo carisma: mi disse che dovevo lasciar perdere, prendermi una cazzo di vacanza e dedicarmi ad altro. A cosa non lo sapeva nemmeno lui, ma dovevo farlo. Gettai allora il computer in una macchia di sangue lasciata tempo prima da una ferita d'arma da cuoco e cominciai a dipingere i muri di casa. Ne venne fuori una città che non avevo mai visto, di quelle che possono esistere oppure resistere (a cosa non ricordo), immutabili e in continua espansione. Blu oppure arancione. Effervescente ma povera di sodio. La dipinsi così bene che immaginai l'inizio di una storia, che magari partiva dai bassifondi per raggiungere il centro. Avevo qualcosa per supplire all'assenza del mio protagonista, senza perdermi in ripetizioni da quattro soldi per poter riempire lo spazio straziante di una pagina senza caratteri (o carattere? Anche qui lascio inventiva ai poster. Che via sia di monitor).
La città che stavo disegnando era pazzesca, perfino pirotecnica nelle sue luci buttate a pennellate a cazzo di cane.
Rimasi in casa per almeno due settimane. A risultato finito ero molto confuso. Ero circondato da una città che non avevo mai visto. Ero dentro, capite? Dovevo sentirmi felice come un neo patentato ma non ero altro che il buco di una ciambella. Ero nell'occhio del ciclope. Per lo sconforto mi diedi all'alcool. Dopo un paio di bastonate allo stomaco mi feci una doccia e cominciai a ragionare su quello sconforto che mi aveva poco prima portato a darmi all'alcool. Forse la frustrazione di un viaggio mancato? Forse il rifiorire di un talento che credevo nascosto? O, peggio ancora, quella città era l'illusione di un posto in cui volevo andare a vivere nonostante me lo fossi inventato? Ash non mi rispose, chiuse la valigia (la pistola l'aveva trovata in soffitta, gli bastò leggere qualche riga di questo capitolo) e se andò con la promessa di tornare appena impossibile.
Io non l'avevo capito ma alla fine lasciai perdere. Battezzai quella città inventata come "Incompiuta", mangiai un po' di gelato, mi tolsi i bigodini e mi infilai a letto.
Prima o poi Ash sarebbe tornato. Nel frattempo mi sarei riposato.

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