mercoledì 8 giugno 2011

Blackout (seconda stesura, quick edit)

(la prima stesura si trova qui)

Entro in casa e fuori è già buio, ovunque. Vado in camera mia, lancio lo zaino da qualche parte, tolgo la sciarpa, la giacca, mollo il cellulare e accendo il computer, che devo nutrire la mia “mail dipendenza”, la droga che colpisce chi ha molte cose da fare e chi non ha un cazzo da fare.
Io faccio parte di entrambe le categorie, a cavallo tra sogni e realtà, ripetizioni durante il weekend e l’ultimo Dylan Dog, allenamenti e film in streaming.
La mia vita è su una cuspide, dolce e dolorosa, che punge e non avvelena.
Di fianco al portatile una pila di libri, un po’ esortante, un po’ ammonente e qualche cd senza custodia che mi sforzo a non buttare senza un vero motivo.

In posta le solite cose, messaggi di amici e avvisi dell’università. Il cellulare vibra e lo lascio lì. Leggo le ultime notizie e come ogni volta mi stupisco di quante cose succedano al mondo e di quante noi sappiamo solo un pezzo di verità.
La finestra mi mostra la città che freneticamente si sta mettendo l’abito da sera e vanitosa si specchia su ogni vetrina, su ogni auto, dentro ogni bar, e la luna che un po’ nascosta da un paio di nuvole si prepara per l’ennesima nottata senza essere guardata.
Se solo le costellazioni potessero parlare, urlare la rabbia per questi ultimi decenni di totale indifferenza verso di loro, che sono state lo spettacolo preferito di civiltà che non esistono più, civiltà che ne hanno fatto culto e studio con la speranza di lasciare un’eredità.
Una speranza che abbiamo sospeso con i lampioni, lasciando lì l’infinito come la tela più importante di una mostra che nessuno va a visitare. Se domani le stelle smettessero di brillare non se ne accorgerebbe nessuno, nemmeno io.
Una volta scrissi che qualcuno una notte ha guardato il cielo e con il dito ha unito alcune stelle, dipingendo animali, miti e sentimenti. Già, qualcuno. Chissà com’era questo qualcuno, un ragazzo come me, un vecchio, una donna, un bambino. Chiunque fosse aveva l’anima sporca, l’unico modo per poter ascoltare le stelle.

Il primo messaggio è di mio padre, che mi chiede se torno a casa nel weekend. Le chiamate perse, due, sono di mia madre, che è ancora convinta che se non rispondo la prima volta lo farò pochi attimi dopo al secondo tentativo.
No. Rimango qua. Ma non è un capriccio e nemmeno una provocazione. Solo voglio godermi l’appartamento e il terzo – o quarto? – finesettimana lontano da casa. E poi non ho voglia di vedere nessuno che lecca il culo a mio padre mentre mangio eritreo o messicano. E nemmeno di discutere con mio madre del mio futuro.
Chiamo la pizzeria dietro l’angolo. E penso a questo cazzo di futuro che non la smette di invadere il presente.

Gli lascio un paio di euro di mancia e il ragazzo, stritolato da giacca, sciarpa e guanti, mi guarda felice, come se gli avessi regalato il più bel momento della serata. Consegnare le pizze in Italia è il lavoro più brutto del mondo, quello che lascia meno soddisfazioni, come del resto qualsiasi mansione che preveda quel misero riconoscimento simbolico che trovi sul dizionario alla voce “mancia”. Col motorino, con pioggia o neve, devi portare nel minor tempo possibile cibo evitando di essere travolto dagli automobilisti peggiori del mondo e scavalcare qualche semaforo e qualche marciapiede per consegnare in tempo e tornare subito in negozio che c’è sempre qualcuno affamato che non ha voglia di cucinare. Sviluppi concentrazione e furbizia. E guadagni un cazzo.

Mi chiama Samuele che la pizza l’ho già digerita e mi sono acceso una sigaretta. Ridiamo un quarto d’ora sulle nostre stronzate e dedichiamo circa venti secondi per decidere della nostra serata. Si va al Danzar, si beve tanto e si paga poco, in centro, vicino. Mi devo solo lavare e mi passa a prendere lui, ha voglia di guidare mi dice, come se glielo avessi chiesto.
Mi scolo un’altra birra.
Mentre mi faccio la barba il cellulare comincia a vibrare. Poi smette. E poi ricomincia. Mi guardo allo specchio e decido di lasciare un po’ di pizzetto, giusto per addolcire il grugno che i miei mi hanno costruito. Non so quanto tempo è passato, ma esco lo stesso di casa, aspetterò Sam in strada, fumerò una sigaretta e ascolterò un po’ di radio col cellulare.

Solito traffico. Ho voglia di bere.
«Com’è andata oggi?» mi chiede Sam mentre siamo fermi al semaforo rosso. Due ragazze che attraversano ci guardano e sorridono.
«Al solito.» e continuo a guardare fuori, lampioni e finestre che conosco a memoria.
«Il tuo cellulare vibra.».
Faccio finta di non aver sentito, non preoccupandomi di sembrare ridicolo. Prima o poi smetterà.
«Perché non rispondi?».
«Cosa?».
Non replica, forse ha capito, forse no e si dedica al traffico, che scorre lento e frenetico. Siamo ancora fermi e cerca di guardarmi, in attesa di un ponte, che mi scrolli questa apatia e la getti fuori dal finestrino.
«Che cos’hai?».
Neanche mi sforzo di far finta di cadere dalle nuvole: «Niente.».
«Cristo, eri una pasqua quando ti ho chiamato.».
«Sono solo stanco, bevo una birra e…».
Inchioda, il semaforo è rosso e la frenata calca il suo disappunto, e mi guarda con gli occhi scuri di chi vuole godersi una serata e non vuole avere rotture di palle a fianco. Ci conosciamo da un paio di settimane ma siamo amici da una vita. Due che sono soli fanno presto a stare bene insieme, si condivide la solitudine. Lui nasconde un’anima sporca e me la sbatte in faccia quando la nascondo io.
«Rispondi a sto cellulare e togliti il pensiero.» le mani immobili sullo sterzo, le dita prepotenti.
Rimaniamo in silenzio, io stizzito e pizzicato, lui pure.
«È verde.» gli dico guardando la strada e ripartiamo e la macchina scatta piena di rabbia e scivoliamo tra tutti, veloci, come se non dovessimo mai fermarci, come se dovessimo arrivare su Marte e anche la radio ha smesso di riempire l’abitacolo. Io continuo a guardare fuori dal finestrino e sento lui sbuffare, stringere il volante quasi per rimpicciolirlo. Alberi, palazzi, macchine parcheggiate, gruppi di persone sul marciapiede, tutto sfocato, la tela di un pittore in preda al delirio.
E tutto continua per poco, fino al primo buco dove lasciamo la macchina, davanti una pizzeria che fa consegne a domicilio che sta per liberare i ragazzi per la serata, e non siamo troppo distanti dal locale e nemmeno troppo lontani da casa mia.
Guardo quei ragazzi e uno di loro mi sembra quello che mi ha portato la diavola a casa. Samuele esce dalla macchina e sbatte la portiera. La sbatto anch’io.

Tutti ridono e lo faccio anch’io, questa barzelletta è divertente e appoggio la bottiglia finita per terra, delicatamente. Guardo il braccio piegarsi e allungarsi e tornare indietro, appoggiato sull’altro. C’è rumore intorno a me, rumore di vita, di divertimento, di notte infinita. Sapete come fate a capire che un fiume è sporco? Non pescate, i pesci galleggiano già morti.
Io sono uno di quei pesci e questa piazza limitata ai pedoni, colma di gente seduta per terra, chi con la chitarra, chi con una cassa di birra, mi sembra quel fiume.
Senza motivo, cazzo. Senza motivo. Alzo il naso al cielo e butto l’orecchio là in alto, alla ricerca di qualche suono, di qualcosa che mi perfori il timpano e mi faccia colare il sangue sul collo.
Non sono l’ultimo uomo sulla terra. Siamo tutti gli ultimi uomini sulla terra.

Prima una, poi quella a fianco e tutti i ragazzi cominciano a urlare e scherzare, alzandosi e saltellando spinti dall’euforia. Ora quella e anche quell’altra. Una strage. Una meravigliosa strage. Anche là in fondo, oltre alla vecchia porta d’entrata alla piazze, sta succedendo. A uno a uno e poi a due a due e poi sempre di più. Interi palazzi che diventano neri, strade che perdono consistenza e si mischiano con negozi e persone.
Un blackout.
Lampioni, appartamenti, neon, insegne, bar, paninari, tutto nero, tutto senza luce. E l’urlo della piazza si allarga e coinvolge, il grido è la sfida a ciò che sta succedendo, e io osservo e sento tutto, non mi perdo nulla fino a che gli occhi si abituano a questo inaspettato ed eccitante buio.
Peccato che qualche idiota cominci a tirare fuori cellulari e accendini, trasformando questa oscurità in un enorme tavolo colmo di tessere di puzzle buttate a casaccio. Fanculo. Uno dietro l’altro e le tessere aumentano, sempre più vicine, sempre più unite, quasi a ricomporre la banalità della serata.
Sbuffo e maledico e poi alzo gli occhi.
Il rumore.
Tutto lassù ci guarda e sono il primo ad approfittarne e non sono l’ultimo perché adesso qualcuno degli idioti sta rimettendo a posto il cellulare e sempre più gente smette di parlare e comincia a respirare verso il cielo.
L’infinito comincia ad abbracciare la piazza, dalla fila di colonne fino al porticato della vecchia chiesa, risucchia tutto senza abbandonare nessuno di questi ultimi uomini sulla terra. Sento il cuore battere. Tutti così soli e così insieme, persi e ritrovati da quelle stelle che ci eravamo dimenticati esistessero.
Smetto di pensare. Il futuro può aspettare. Il futuro deve aspettare.


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