venerdì 27 luglio 2012

La cura

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«È successo circa trent’anni fa. Colpiti dalla sua forza, gli abitanti vollero renderla mitica. Decisero per questo piccolo osservatorio. Ricavarono una scala a chiocciola all’interno del tronco e quell’altra all'esterno», nel sedersi gli sfiora la mano. Imbarazzata, si ricompone e nasconde la sua. Come quando ci si scotta.
«Vedi? Lì, dove c’è il terrazzino. È il punto in cui il fulmine la aprì in due».
Lui viene qui da qualche giorno nell’attesa che dall’ospedale lo chiamino per l’ultima volta. Suo zio, neanche cinquant'anni, è “sotto morfina”. Vuol dire che “non c’è più niente da fare, solo aspettare”. Così se ne andrà un fratello, un figlio, un marito, un padre. Ha vinto la leucemia.
«La curiamo, ma ha perso gran parte dei rami. È una quercia che ha circa mille anni. Capisci? È tra le più vecchie esistenti. Anche la natura deve lottare con la vecchiaia, le malattie. Noi facciamo quello che possiamo, quando serve la rattoppiamo con altro legname, vedi?».
«Potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera».
«Pablo Neruda», lo dice come se conoscesse il poeta di persona. E mai come adesso lui la sente così sua per natura. Questa ragazza con gli occhi disegnati col prato gli si è avvicinata con la sola pretesa di accontentarsi del suo silenzio, dopo averlo visto scaraventare la bicicletta su ogni filo d’erba.
«Perché un osservatorio?».
«Da qui vediamo il nostro paese, i nostri campi, i nostri cavalli. Le nostre radure. Il nostro fiume. Il nostro cielo. Secondo me sentivano la mancanza di qualcosa che potesse guardare l’universo».
«Per quello non è necessario un telescopio», e la fissa dritto negli occhi, intenso come il cielo prima di un temporale estivo. Lei accenna un rossore e così ferma con quei ricci biondi si confonde con i girasoli che riempiono la collina.
«Un fulmine. Pazzesco».
«Mi piace pensare che non sia stato un dispetto, nemmeno un castigo».
«L’ha resa unica».
«Già. Indimenticabile».
E lui stringe il pugno destro, ci chiude tutti i suoi ricordi, anche quelli che avrà, perché la morte fa ancora più schifo dopo che è passata. La morte interrompe una storia che gli altri dovranno riprendere.
«Com’è che non ci siamo mai visti prima?».
«È che non ci siamo mai conosciuti».
«Ah. Vieni spesso qua? Oltre che per lavorarci, intendo».
«No», lei, d’istinto. Una risposta che è un respiro dopo essere stati in apnea.
L’aria intorno accompagna il tramonto che va ad accendersi nella sera.
«Comincio a credere che non ci sia qualcosa sopra di noi a osservarci».
«E quelle?».
«Devo pensare che paradiso e inferno non sono altro che costellazioni, materia e anti materia?».
«Nulla di tutto questo. Mi piace però l’idea di qualcosa che non decida per noi ma si limiti a guardare e…».
«Gran passatempo del cazzo» e si alza, di scatto. All’impeto seguono però subito la rabbia e la disperazione di chi vorrebbe incendiare il cielo ma non può farlo. Alla fine, svuotato, cade sulle proprie ginocchia, arreso e disarmato. Lei si alza, piano, senza farsi sentire. Gli si mette alle spalle, si abbassa e con calma lo stringe fino a quando la sua guancia è appoggiata alla nuca.
«…e abbracciarci».
Gli accarezza il volto, lui le bacia il palmo della mano.
La città là sotto dorme. È molto tardi.
«Che ore saranno?» e tira fuori il cellulare.
Tira un sospiro e arriva un colpo di vento, come se qualcuno avesse aperto la finestra.
«Che succede?».
«Non l’ho sentito. Mi ha chiamato il primario».
Lui si alza: «Mio zio se ne è andato», lì in piedi, rapito dal cielo che lo schiaccia.
Lei lo raggiunge. Si stringono. In due il cielo pesa di meno.
«Vieni con me».
La segue, si tengono per mano. Entrano nel tronco, salgono la scala, emergono sul terrazzino.
«E quindi uscimmo a riveder le stelle», sommesso.
«Vieni» e lo porta al telescopio dove in silenzio, facendo a turno, lei lo accompagna nella ricerca di qualcosa che lo osservi. Che lo abbracci. Paradiso o anti materia che sia.
E mai come oggi ringrazio quel fulmine per avermi colpita.

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