venerdì 25 marzo 2011

Il Signor Lucci

Era il pomeriggio di un maggio qualsiasi. Una giornata che si poteva facilmente confondere con qualsiasi altra fosse primaverile, o con un barlume di calda freschezza.
- È permesso?
La segretaria, nel suo consueto camice bianco che malcelava la camicia rosa lievemente scollata, puntò il dito verso un punto imprecisato della sala alle sue spalle, senza staccare gli occhi dal monitor, riempito dai colori del sito di una discoteca della periferia.
- Grazie. - rispose il signor Lucci un po' a bassa voce, un po' in silenzio, tentando di incrociarle forse lo sguardo, certamente la scollatura.
Prese posto, accavallò le gambe, le sciolse, le accavallò di nuovo. Alla ricerca di maggiore comodità appoggiò le braccia, ma quando queste caddero nel vuoto, solo allora si accorse di aver preso posto su una sedia di legno, per nascondere l'imbarazzo e darsi un'aria dignitosa come se nulla fosse accaduto si guardò intorno. 

La sala non era grande, piuttosto molto alta. Una modesta lampadina al centro del soffitto più sporco che dipinto di bianco e a scendere a completare la stanza d'attesa quattro muri di eguale dimensione colorati senza troppa attenzione di un po' di rosa e un po' di giallo, combinazione che creava una miscela di discutibile gusto. Del resto in quella stanza i pazienti ci dovevano trascorrere al massimo una mezzora e i titolari dello studio non concorrevano certo al concorso per il miglior design d'interni.
Già, i pazienti. Il signor Lucci ne contò tre. Alla sua destra una vecchia signora seduta sull'unica poltrona del locale nascosta nel suo pelliccione e nel cappello di lana, abbigliamento testimone di pericolosi problemi di pressione sanguigna. Oppure mentali. Sul muro di sinistra, invece, una coppia di gemelli, entrambi calvi, entrambi trentenni, vestiti con una canotta bianca e pantaloni da lavoro blu. Di loro non riusciva a diagnosticare nessuna patologia, ma rideva sotto i baffi per quell'espressione infantile che rendeva ancor più grottesco il loro aspetto, del tutto simile a quelli dei gemelli del Mondo delle Meraviglie di Alice. Le guance erano la porzione di corpo che gli provocava i maggiori problema dal mantenere un'espressione seria. Rotonde, grosse e penzolanti sui lati, quasi dei caciocavalli.
Per non incorrere in gaffe delle quali difficilmente sarebbe riuscito a fronteggiare le conseguenze (nella sua vita mai era rimasto incastrato in situazioni simili, per la passione dei fatti propri e per la perenne paura di incorrere in soggetti pericolosi che potessero cogliere l'occasione per aggredirlo, e lui così mite e così scarso in muscoli...) volse lo sguardo sulla vecchina stritolata in quella che era, data la stagione e la temperatura interna a tratti asfissiante nonostante l'aerosità della sala, una sorta di vendetta di ciò che rimaneva della bestiola sacrificata in nome della moda. Ma la donna non destava dubbi di sentirsi alquanto bene, piuttosto a suo agio, quasi chiedesse maggior protezione dal freddo russo che solo lei sentiva. Il signor Lucci, solo a guardarla, si sentiva soffocare dentro la sua maglietta di cotone e i suoi pinocchietti di tela.
Insomma, guardare a sinistra poteva regalargli l'imbarazzo più grande della sua vita e un pomeriggio da non raccontare a nessuno, guardare a destra lo occludeva quasi da scioglierlo, quasi da sudare copiosamente. Non restava che concentrarsi sul resto dell'ambiente.
Oppure la segretaria, di cui ora vedeva la lunga chioma nera scendere fino al fondoschiena, seduta ancora davanti a un monitor che mai trasmetteva immagini di database o di programmi di scrittura. Si chiese quale misura di perizoma indossasse. Quella ragazza non poteva che vestire biancheria intima di tal genere. Snella, formosa, provocante e incurante del proprio lavoro. Si accorse che più che per vera e propria conoscenza, quell'intuizione era più che altra costruita su pochi e banali elementi e personali fantasie consumate a una mano nelle sue notti da solo a casa. Sentì del sudore scendere dalla fronte e nell'atto di asciugarsi pose l'attenzione sui calli della mano sinistra, provando frustrazione e disgusto.
Un fallito, un reietto, un idiota, un emarginato, un omuncolo chiuso nella sua piccolezza. Incapace di far fronte a una coppia di buffi gemelli grossi solo nelle braccia (e nelle guance) e di guardare un'anziana senza farsi contagiare dalla sua aura. Senza dimenticare il suo tremendo rapporto con le donne. E quello pessimo che aveva con la propria sessualità.
Magari dopo la visita avrebbe chiesto alla segretaria di andare a bere qualcosa non appena questa avesse finito il turno di lavoro. Un paio di chiacchiere e si sarebbe scoperto brillante, col senso dell'umorismo appropriato, mai volgare ma comunque per tratti malizioso. Lei avrebbe riso e dopo un paio di cocktail innocui ma efficaci, gli avrebbe chiesto di accompagnarla a casa. Lì avrebbe notato i suoi occhi azzurri, pieni di dolcezza e carenza d'affetto, in mezzo a un viso quasi disegnato da una fata al culmine di un corpo disegnato dall'uomo più arrapato del mondo (lui). Le avrebbe preso la mano e dopo una lunga camminata, durante la quale la segretaria avrebbe svelato un po' di segreti, come il nome, l'età, i suoi sogni, sarebbero arrivati davanti al portone di casa sua. E lì, Alessandra, ventitrè anni, studiosa al quinto anno di medicina, cubista per arrotondare, amante del miele sulle castagne e dei peluche giganti, lo avrebbe invitato a baciarla senza dire nulla, rimanendo con le guance, non come quelle dei gemelli, un po' arrossate a fissare un po' lui e un po' nessun punto preciso nel cielo. E si sarebbero baciati. A lungo. Una danza erotica, un tango appassionato senza l'ausilio di nessuna orchestra. Si sarebbero bastati. E poi via, seguendo la follia della notte e di un amore improvviso mai aspettato, sperato e finalmente arrivato, una lunga corsa oltre la città, fino al lago. Chi se ne frega del lavoro, chi se ne frega della vita. Avrebbero attraversato la foresta, inseguendosi, stuzzicandosi, mano nella mano e scappandosi dandosi l'illusione di non tornare più nelle braccia dell'altro, che tutto non fosse altro che una presa in giro. Ma prima di una lacrima o del suicidio, l'altro sarebbe riapparso, l'altra sarebbe riapparsa, rassicurandosi che tutto fosse vero, meravigliosamente vero, quanto l'aria della notte, la purezza degli alberi centenari, i caprioli e le volpi, le lucciole. Che fosse valsa la pena aspettare, una un paziente che non aveva mai notato, bella forza con tutto quel tempo attaccata al monitor del computer, l'altro la segretaria di cui conosceva solo la silhoutte ipotetica del seno e la chioma. E avrebbero corso la loro gara insieme, stretti l'uno nell'altra fino alla spiaggia del grande lago, guardandosi e ridendo, condividendo la felicità della prima volta, la spudoratezza dei loro gesti, l'amore appena cominciato ma già eterno, colmo di promesse e sorprese. Si sarebbero seduti, contemplanti il panorama scuro e intimo che la natura gli avrebbe offerto e lei avrebbe giocato con il suo viso, trascinando il dito su tutta la pelle, tastando le palpebre, le guance spruzzate di una lieve barba, le labbra sottili e simmetriche. 

Lui non avrebbe fatto più nulla.
Il signor Lucci morì in quella sala d'attesa dello studio medico del suo cardiologo in un pomeriggio di maggio, una giornata che si poteva facilmente confondere con qualsiasi altra fosse primaverile, o con un barlume di calda freschezza.
Aveva novantotto anni. Quando cadde dalla sedia il cuore, stretto nel collasso degli anni, si era già fermato. Il signor Lucci se ne andò così, prima del buio finale vide i suoi fratelli gemelli che morirono quando lui era ancora ventenne e la mamma morta trent'anni prima. Vide per ultima una donna, bellissima. Forse la moglie che non aveva mai avuto, forse la figlia.
Certo un grande senso di colpa verso se stesso.

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