sabato 9 aprile 2011

Cerebrale

- Saresti stata la prossima.
Quelle parole lei le aveva solo immaginate, appiccicata al cuscino durante una delle tante notti insonni degli ultimi anni. Ma quella torbida fantasia non ha creato lo scudo sufficiente per proteggerla adesso, su quel pianerottolo, davanti a lui che lo ha detto davvero. Tutto questo basterebbe per entrare in casa e chiudersi quella parte di vita alle spalle, una volta per sempre. Lui capirebbe e non tornerebbe mai più. Nessun bigliettino, nessun piantonamento. Via.
E il mondo continuerebbe a fare schifo.
E il mondo continuerebbe a precipitare nell'universo, senza mai schiantarsi.
- Perché non me l'hai mai detto?

La guarda, poi fissa la tromba dell'ascensore. Le occhiaie gli invecchiano il viso più di quanto lui vorrebbe ed è come se il suo viso non avesse mai conosciuto giornate di sole. Sullo zigomo sinistro un paio di piccole cicatrici in più. La sua maledetta voglia di vivere.
Non è cambiato.
Gira lentamente la testa, verso di lei, e infila le mani nelle tasche dei jeans. Per la prima volta è smarrito, il cacciatore si è fatto preda. La sconsolata constatazione, enunciata senza mai battere le palpebre.
- Mi credi se ti dico che proprio non lo so?

Quando il cellulare vibra lei è ancora intrappolata in autostrada, in mezzo a migliaia di idioti che hanno scelto il giorno sbagliato per darsi appuntamento tutti insieme proprio oggi che è il suo compleanno. Non ci sono feste sulla sua agenda e in quella città nessuno sa quando è nata. E nessuno lo saprà mai. Una doccia, la cena, la lavatrice, il pigiama, il film e il letto. Non chiede chissà cosa, solo che almeno oggi il traffico si sciolga il prima possibile. Spegne la radio che tanto non stava ascoltando, sbuffa e risponde, senza guardare il display. Sarà mamma. O al massimo quel cretino del gestore della videoteca che non ha ancora capito che ieri sera è stata solo colpa della vodka.
- Mamma?
- Aria. Sei tu?
- Sì - quella voce lei la conosce. Si prende un paio di secondi, respira. Guarda il display: numero privato.
- Aria?
- Ha sbagliato numero - e mette giù. Le macchine si muovono appena. Venti centimetri in meno verso casa.
Due? Tre anni? Forse qualcosa in più. Come ha fatto ad avere il suo numero? Riprende il cellulare, ma quella chiamata è esistita ed è davvero anonima, nessun abbaglio. Era davvero lui? Altrimenti? Uno scherzo? Da escludere. Nessuno sa niente di quello che successe, nessuno sa nemmeno che oggi è il suo compleanno. Quindi? Cosa vuole? Cosa sta succedendo?
Quando smette di pensare la sua mano sta picchiando forte il clacson, e intorno c'è il trambusto di migliaia di automobilisti che si son fatti contagiare ma che non possono vederla piangere.

Come tutte le altre volte ci mette una buona mezzora prima di trovare parcheggio. Di piangere ha smesso, ma non vede l'ora di entrare in casa per ricominciare. Giunge sul portone.
- Aria?
Non si gira, infila la chiave nella serratura.
Una mano le afferra la spalla. Si gira di scatto, pronta a tutto senza saper cosa fare.
- Questa è tua.
Il gestore, con un sorriso, le allunga la borsetta.
- Era sul marciapiede, di fianco alla tua macchina. Continuavo a chiamarti ma quasi correvi. Cosa fai, mi scappi?
Aria apre bocca ma ciò che ne esce è un miscuglio di parole senza senso che si conclude in un monosillabo: - No.
- Mi chiedevo se stasera ti va di guardare un film insieme.
Lei apre la borsetta e comincia a rovistarci senza cercare niente.
- Non ho rubato nulla - rivela lui, sperando che una piccola battuta possa ammorbidirla.
Perchè non se ne va una volta per tutte? Perchè ogni uomo che incontra non capisce che lei non esiste? Perchè ieri sera si è lasciata scopare? Che vita del cazzo, nulla che vada per il verso giusto. Che sia nata storta ormai l'ha capito da tempo, cosa aspetta il mondo a farsene una ragione? Intorno ci sono milioni di donne pronte a passare la serata con te. A fare sesso per poi farne ancora, a dirti che è stato bellissimo avendo avuto davvero un orgasmo. Ho solo bisogno di una doccia e di andare a dormire e domani andrò a farmi cambiare il numero di telefono. Hai davvero bisogno che ti mandi a fanculo per levarti di torno?
- Hai perso qualcosa?
- Vado a casa, sono a pezzi. Domani passo in negozio e ti porto il dvd.
- Andiamo poi a bere qualcosa?
Una sberla. Forse un calcione. Lasciarlo lì rantolante e correre a letto. E poi? La chiamerebbe, sfonderebbe il portone e comincerebbe a urlare davanti il suo appartamento. La violenza porta solo violenza, lo sa. Lo ha imparato. E lei non ha bisogno di questo. Quello deve tornarsene sulle sue gambe e dimenticare il suo corpo nudo. Aria è solo una cliente del suo negozio.

Che sia sesso.
Che sia amore.
In entrambi i casi lei non ne vuole sapere.
Questi maledetti uomini che si innamorano delle bambole gonfiabili. Non gli ha nemmeno fatto un pompino. Lui le ha buttato la lingua in bocca e lei per far finire tutto subito ha alzato la gonna e ha abbassato l'intimo. Pochi secondi e lui è entrato, lei seduta sul tavolo del soggiorno di casa sua. Troppi minuti e lui è uscito, ansimante e sudato, con lo stesso sorriso che ha adesso, quello di chi ha assaporato e si è ingolosito, inconsapevole di quanto lei, nonostante le braccia allacciate al suo collo e la testa appoggiata alla spalla, fosse lontana, nel suo mondo fatto di sogni interrotti e speranze mai coltivate, un mondo che si è costruita che le è crollato addosso quando poi è corsa in bagno a piangere. Lui adesso spera che sia stata sola una serata strana, lei magari era solo troppo sbronza. Che sotto quella perenne apatia verso ogni cosa si nasconda la dolce tigre che nessuno ha mai conosciuto, occultata dalla voglia di solitudine e di farsi semplicemente i cazzi propri.
E in fin dei conti, non esiste essere umano che non ami il sesso. Che non ami essere apprezzato, essere al centro del mondo per un altro essere umano. Dal sesso all'amore, poi, bastano poche volte. Basta solo insistere, un pochino. Aria ha bisogno di essere stuzzicata, l'ho capito. Ha paura di ciò che potrebbe succedere. Una ragazza così triste quanto bella non può stare da sola, no. Ha bisogno di me. Ha bisogno di lasciarsi andare. Ha bisogno di vivere, ha bisogno di un uomo che la protegga da tutti gli altri che la vorrebbero scopare e poi abbandonare. Come le è già successo. Sì, perché è successo. Lo so, lo sento. L'ho capito da come mi abbracciava mentre lo facevamo. E l'ho sentita piangere mentre era in bagno.
- Mi fai andare a casa, per favore? Davvero, per favore.
Lui non vuole lasciarla andare, ma capisce che è meglio aspettare piuttosto che insistere. Che è meglio corteggiarla domani piuttosto che beccarsi un vaffanculo subito. Abita lì, va a prendere film e stuzzichini nella sua videoteca. Lei entra, fa un giro per i corridoi, si ferma davanti all'esposizione degli ultimi usciti e in quel momento lui la prende dalle spalle, per poi scivolare sui fianchi, un bacio sul collo, un piccolo gemito.
- Passa quando vuoi.
Aria è già andata, veloce, imprendibile.
Lui rimane lì, con la voglia di dire qualcosa senza poterla dire. Sereno, riprende la strada verso casa sua, tre isolati dopo il parco, cammina sicuro. Si ferma al supermercato e compra un paio di candele. E una bottiglia di vodka.

Quando Aria esce dalla doccia fuori è cominciato il buio. La città ha cominciato a riposarsi e lei, nel suo accappatoio, va in soggiorno, vogliosa di naufragare nel divano. Prima però un bicchiere di vino, a cui ne segue un altro, e un altro ancora. Li beve subito, senza assaporarli. Il vino entra in bocca e senza fermarsi scende a dirotto per la gola per poi imbrattarle lo stomaco, dove non c'è ancora cibo e difficilmente ce ne sarà. Un'occhiata alla finestra, un'altra al cellulare che giace silenzioso sul tavolo.
Tanti auguri Aria. Come l'anno scorso, come quello prima, e indietro di chissà quanti.
La sbronza non serve per festeggiare. Cosa poi? La sua solitudine? Il suo odio verso la felicità? I falsi capelli biondi? Le lenti a contatto verdi?
Le viene in mente suo padre, quando al suo diciottesimo le regalò il motorino. Il fiocco gigante rosso, le torte in faccia, le risate nella vecchia cascina di famiglia. - Hai visto? Ti do una mano per scappare - le aveva detto abbracciandola, facendosi sfuggire un paio di lacrime gialle piene di malattia. Dopo essersi spappolato il fegato durante una gioventù burrascosa, fatta di risse e feste, si era sposato con la donna della sua vita e si era "ravveduto", come dicono i fratelli e le sorelle. Dopo aver comprato quelle quattro mura per molti invendibili, ci aveva buttato soldi e sangue, fino a farne una produttiva cascina, capace di rifornire il paesello con i migliori ortaggi della provincia. La nascita della figlia aveva poi totalmente estinto il suo istinto avventuriero e rissoso, fino a farne un padre eccezionale, devoto e protettivo. E astemio. All'inizio per sua volontà, poi per quella dei medici che dopo una lunga trafila di esami gli presentarono il resoconto della vita spesa a dare botte e bere liquori secchi. Cirrosi epatica, trapianto ormai inutile. Un anno di vita, massimo due. E invece quel delinquente senza speranze, che diventò marito, lavoratore e infine padre, che non perse un grammo del suo fisico da picchiatore infallibile, arrivò fino al diciottesimo di Aria.  

Quel motorino fu l'ultimo regalo che poté farle. Si consumò fino a spegnarsi due mesi dopo, nel sonno, in casa sua.
Suo padre diceva sempre che bere alcool non serve a un sacrosanto cazzo. Solo a non rendersi conto che esistono modi meno crudeli per ammazzarsi. Una sera Aria, allora sedicenne, tornò ubriaca da una festa con i compagni di scuola. Nulla servì togliersi le scarpe e camminare al buio, che il padre, sveglio e attento come fosse giorno, la attendeva da tre ore seduto sul divano, a leggere il giornale e controllare l'orologio a muro. Violazione del coprifuoco di tre ore, con l'aggravante della sbronza. Aria si spaventò tanto da non tentare nemmeno una giustificazione. Ammise l'idiozia pronta a non uscire la sera per almeno un mese. Invece il padre, conscio delle marachelle dell'età, anche lui era stato sedicenne e lo era stato per almeno altri dieci anni, le mostrò un sorriso. Poi la prese, severo, per una spalla e la portò con sé in cucina, dove il tavolo era sovrastato da una bottiglia di liquore al ciliegio e due bicchieri. Presero posto.
- Riempi - le disse, indicandole la bottiglia, seduto certo di raggiungere il suo scopo.
- Beviamo insieme? - chiese Aria, incuriosita e lievemente eccitata. L'alcool le aveva nascosto la timidezza, ma non l'ingenuità semmai echeggiata, e le aveva sbloccato qualche freno inibitore di troppo, tra i quali quello dell'immaginazione, grazie al quale si vedeva a ubriacarsi col padre per tutta la notte, per tutta la vita.
- Dato che io non posso, berrai tu per me.
Aria diventò sobria. Che proposta era? Il viso le si allungò, le sopracciglia erano ancor più arcuate sugli occhi (quant'era bello avere sedici anni?). Prima di bere il primo bicchierino, quello legittimo, chiese "Cosa?" una decina di volte, avendo come solo unica risposta lo sguardo puro pieno di sfida di suo padre.
Il primo la ricacciò nella sbronza smaltita appena entrata in casa. Voglia di ridere ma una tenue lucidità, quella che ti fa cogliere le parole essenziali di un discorso fino a riuscire a capirlo pur non capendo le altre.
Il secondo la intrappolò in un corpo senza ossa sulla cui altissima cima c'era una testa incapace di rimanere immobile e di produrre l'ostentata brillantezza che finora aveva palesato. Gli occhi tendevano a chiudersi, quasi a raggiungere la bocca. E tutto quello che circondava aveva l'attraenza del letto e del cuscino di camera sua.
Il terzo non lo bevve. Si ricorda solo lei piegata sul cesso con il padre a sorreggerle la fronte, a proteggerle i lunghi capelli scuri dalla cena che in quel momento galleggiava nella bottiglia di vino e i due bicchieri di liquore alla ciliegia che aveva assunto durante quella prima e ultima notte a braccetto con l'alcool.
Un piano ingegnoso. Lo capì qualche notte dopo. Il trauma del vomito in così giovane età l'avrebbe portata a evitare vini e liquori per tutta la vita.
Ma quella tacita promessa l'avrebbe trasgredita l'altra sera, quattordici anni dopo. E Aria si chiede perché diavolo ha aspettato un giorno ai trent'anni prima di farlo.
Non riesce a rispondersi che si è addormenta, insieme alla città.

Una chiamata persa, da un numero privato. Il cellulare finisce disintegrato contro il muro. All'inizio il rammarico, aveva mirato la finestra. Poi l'amara constatazione, ci era affezionata, dovrà comprarne un altro. Infine il diluvio di rabbia e paura che la fa sedere per terra, senza ombrello, con la testa che crolla tra le mani. Come sua madre, la mattina del funerale.
Come tre anni fa, prima che uscisse di casa. Come tre anni fa, quando dovette tornarci, per poi partire, senza valigia. Senza arrivo.
Eccolo qui il mondo contro. L'intero genere umano che non la capisce. L'universo che collassa in ottanta metri quadri. I sogni che vanno a puttane. I ricordi che annullano la sua nuova vita e la ributtano a tre anni prima. Quando tutto era incerto, pauroso, angosciante eppure vivo. Quando lui riusciva a travolgerla rendendola ancor più fragile.
Quando c'era l'amore.
Quando non c'era nient'altro.
Proprio niente. Lui che esce a notte fonda e torna a casa prima dell'alba senza raccontare cosa cazzo fosse successo. Un amico che non vedeva da tanto tempo, un problema in ditta. Cazzate, una dietro l'altra. Magari bugie da fottuto impostore. Ma no, quelle erano balle a fin di bene. Per proteggerla.
Da cosa?
Loro che fanno l'amore e dopo trascorrono la giornata abbracciati senza dire niente. Lei che trova piccole macchie rosse sui suoi vestiti e sa che lui non la tradirebbe mai. E la vita finora in sospeso che comincia a scivolare via, riempiendo con dubbi e sospetti i buchi creati da malsane fantasie.

Fino alla disintegrazione finale. L'ultimo spettacolo. In uno squallido parcheggio illuminato per niente. Le dice che devono sparire, lui, lei. Cambiare città. Non c'è tempo per le spiegazioni. E lui lascia cadere per terra un coltello e un paio di guanti da infermiere.
La verità lì sull'asfalto, affilata e sporca.
Non possono scappare insieme. Lui deve sistemare tutto.
E di lui non le rimane che la promessa che la ritroverà.
Di lui, ora, dopo tre anni, la chiamata persa sul cellulare.

La prossima vittima. Il concetto è chiaro, il concetto potrebbe uccidere. Lo incaricarono di ammazzare l'amore della sua vita.
Tre anni che son serviti a scoprire l'orrore solo immaginato nel peggiore degli incubi su un cazzo di pianerottolo da qualche parte nel mondo. Passeggiata al parco nel cesso.
- Non ricordo nemmeno perché me lo ordinarono. Forse una prova di lealtà. Forse il modo per eliminarmi.
- Cosa hai fatto fino a oggi?
- Ho aspettato questo giorno.
Il tempo che scorre è il peggior nemico dell'uomo. Non facciamo che combattere le ore e i minuti ogni secondo della nostra vita. Appuntamenti, abitudini, necessità. Limare, tagliare, allungare. Siamo i pessimi artigiani del nostro filo temporale. Perché le giornate scorrono comunque. E con esse i mesi. E con loro gli anni. Lei sarebbe potuta morire tre anni prima. Lei potrebbe morire ogni giorno. Ma non nella sua città. Non nell'amore.
Il mondo precipita nell'universo, avvicinandosi allo schianto, senza mai raggiungerlo.
Aria si piega, raccoglie coltello e guanti e glieli porge. Si gira ed entra in casa, chiudendosi la porta alle spalle, senza girarsi.



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